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Chiarimenti sui contratti bancari, etichette alimentari e job acts

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La banca è obbligata a fornirmi copia del contratto di conto corrente, dietro mia richiesta, anche se il contratto risale agli anni 80?

Il testo unico bancario [1] stabilisce che i contratti che la banca fa firmare ai propri clienti devono necessariamente essere redatti per

iscritto (e, quindi, non possono avere altre forme come, per esempio, quella orale). Un esemplare del contratto va sempre consegnato al cliente che, pertanto, potrà pretenderlo. Se non dovesse essere rispettata tale forma, il contratto sarebbe nullo e nulla sarebbe anche l’eventuale pretesa della banca di rientrare nel possesso di somme o prestiti. La consegna del contratto, che il dipendente di banca deve curare personalmente, è attestata mediante sottoscrizione del cliente sull’esemplare del contratto conservato dalla banca (secondo quanto previsto dalle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia).

Non v’è dubbio che il cliente debba custodire la propria copia del contratto con diligenza. Tuttavia, qualora dovesse smarrirla, potrebbe sempre chiederne un duplicato alla propria banca, la quale sarebbe comunque tenuta a fornirglielo (salvo eventuali giuste cause), in ragione degli obblighi di buona fede nell’esecuzione del contratto che il codice civile e il testo unico bancario [2] impongono alle parti. Quest’ultima disposizione, infatti, stabilisce che il cliente (o l’eventuale erede o anche colui che subentra nell’amministrazione dei suoi beni) ha diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni.

È dello stesso avviso la Banca d’Italia che, nelle proprie disposizioni del 29 luglio 2009, raccomanda agli intermediari la trasparenza e correttezza.

Nell’ipotesi in cui la documentazione contrattuale dovesse essere antecedente di oltre 10 anni alla richiesta, la banca potrà eccepire l’intervenuta prescrizione. Tuttavia, ciò avviene di rado. E ciò perché, di norma, la banca che sia in causa col proprio cliente per il recupero delle somme prestate (si pensi all’opposizione a decreto ingiuntivo) qualora voglia dimostrare la legittimità della propria pretesa (per esempio, l’assenza di anatocismo o usura) deve consegnare gli estratti conto anche oltre gli ultimi dieci anni (per un approfondimento, leggi: “Anatocismo e usura: la banca deve consegnare gli estratti conto oltre gli ultimi 10 anni”). E ciò in quanto tale documentazione costituisce la prova dell’esistenza del rapporto e delle sue condizioni iniziali.

 [1] Art. 117 del Dlgs 385/1993.

[2] Art. 119 comma 4 TUB.

 

 

Provenienza controllata e obbligo di tappo antirabbocco.

Con la nuova riforma delle etichette dei prodotti alimentari, anche l’olio d’oliva “autentico” riceverà una tutela maggiore.

Come avevamo anticipato nell’articolo “Cambiano le etichette alimentari”, dal 13 dicembre scorso è scattato l’obbligo di mettere in chiaro una serie di dati per tutti i prodotti presenti sullo scaffale del supermercato o del droghiere (anche se si tratta di una monoporzione). Alla classica tripartizione fatta da carboidrati, grassi, proteine, zuccheri, si affiancheranno anche le indicazioni circa i grassi saturi e il sale presente nell’alimento. Oltre, ovviamente, alle calorie.

Per quanto, in particolare, riguarda l’olio sarà necessario indicare sul fronte della confezione (e non più sul retro) l’origine geografica delle olive. In questo modo il consumatore sarà messo nella condizione di controllare immediatamente, già prima di riporre il prodotto nel carrello, se l’olio è davvero “made in Italy” o, se, invece, provenga dall’estero nonostante riporti il nome di un marchio nostrano.

Cambia la disciplina anche in bar e ristoranti. Infatti, diremo addio alle bottigliette senza etichetta o alle oliere in metallo che non lasciano comprendere cosa stiamo mangiando. L’olio extravergine che si trova sui tavoli della ristorazione, infatti, dovrà essere presentato in contenitori etichettati e avere un dispositivo di chiusura che non ne permetta il rabbocco dopo l’esaurimento del contenuto originale. Chi non userà oliere con tappo antirabbocco rischia una multa fino a 8mila euro.

Job Act: introdotto un nuovo percorso facoltativo presso la Direzione Territoriale del Lavoro per evitare la lite in tribunale e l’impugnazione della decisione dell’azienda.

Con l’entrata in vigore dei nuovi contratti a tutele crescenti, e limitatamente ai licenziamenti riferiti a tale tipologia di negozi, il Job Act introduce una nuova forma di conciliazione tra datore di lavoro e azienda. Si tratta di una conciliazione facoltativa (non, quindi, obbligatoria) che evita, a monte, e una volta per sempre, la possibilità che il dipendente impugni il licenziamento in tribunale. Vediamo di che si tratta e come funziona.

Conciliazione facoltativa del Job Act

In base alla recente riforma del lavoro, nel caso in cui l’ex dipendente contesti il licenziamento, il datore, per tacitare le pretese di quest’ultimo, potrà recarsi presso una delle sedi abilitate a convalidare le conciliazioni di lavoro (come la Direzione territoriale del lavoro (Dtl), o le commissioni sindacali e gli enti di certificazione). In tale sede egli potrà offrire formalmente, all’ex dipendente, una somma di denaro con assegno circolare.

La procedura, come detto, è facoltativa, ma la legge pone due paletti precisi da rispettare:

– tempi: la conciliazione dovrà avvenire entro e non oltre 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento;

– importi: l’azienda non potrà offrire meno di 1 mensilità della retribuzione per ogni anno di lavoro, da un minimo di 2 sino a un massimo di 18 (con importi dimezzati, fino a un massimo di 6, per le imprese fino a 15 dipendenti). Non potranno, quindi, essere considerati vincolanti accordi per importi minori rispetto a questi.

La conciliazione si considererà conclusa e perfezionata nel momento stesso in cui l’ex dipendente accetterà l’assegno. Con il relativo incasso, infatti, egli non potrà più impugnare il solo licenziamento.

Resta però ferma, per il lavoratore, la possibilità di contestare eventuali ulteriori irregolarità del rapporto di lavoro, come eventuali differenze retributive (per mensilità non pagate, TFR, straordinari, ecc.). Esse potranno essere oggetto anche di un ulteriore e apposito accordo o, diversamente, sfociare in tribunale.

 

Conviene?

Se entrambe le parti nutrono dubbi sull’esito di una eventuale vertenza giudiziale, l’accordo sarà certamente conveniente. E ciò perché:

– dal lato dell’azienda, la somma è quasi dimezzata rispetto a una eventuale condanna da parte del giudice;

– dal lato del lavoratore, questi otterrà un importo netto vicino a quello che potrebbe ottenere al termine di una causa, in quanto le somme offerte nell’ambito della conciliazione facoltativa saranno totalmente esenti da prelievo fiscale e contributivo.

La conciliazione obbligatoria

Invece, per i soli lavoratori assunti prima dell’approvazione del Job Act (e quindi ai quali non si applicheranno i contratti a tutele crescenti) continuerà ad applicarsi la vecchia normativa, la quale prevede una conciliazione obbligatoria presso la Dtl:

– solo nel caso di licenziamenti economici

– e comunque a condizione che l’azienda abbia più di 15 dipendenti.

A differenza della precedente conciliazione facoltativa, questa deve avvenire prima (e non dopo) il licenziamento e il datore sarà libero di offrire la somma che crede.

Conciliazione volontaria

Accanto a queste due procedure, resta sempre la possibilità del dipendente di attivare una conciliazione facoltativa presso la Dtl, per stimolare un incontro con l’azienda innanzi ai rappresentati di entrambe le parti. È un tentativo di accordo facoltativo e gratuito, il cui mancato esperimento (ed eventualmente anche l’assenza dell’azienda) non comporta alcuna conseguenza.

Conciliazione monocratica

Resta anche la possibilità, per il dipendente, di chiedere l’intervento dell’Ispettore del lavoro (anch’esso presso la Dtl) al quale verranno denunciate le irregolarità e le inadempienze dell’azienda. L’ispettore convoca le parti, ma, a differenza della precedente ipotesi, l’accertamento ha una funzione pubblicistica: con la conseguenza che, in caso di mancata partecipazione del datore o di mancato accordo, scatterà l’accertamento, con l’eventuale applicazione – all’esito del controllo – di sanzioni particolarmente salate.

Conciliazione informale

Esiste infine un’ultima possibilità per azienda e dipendente di trovare un accordo. Esso viene raggiunto tra le parti e poi convalidato in una sede protetta (Dtl, sedi sindacali ecc.).

L’attuale dibattito sul Job Act, e la possibilità di prevedere una forma di licenziamento legato alla produttività del lavoratore, ha riaperto una questione sino ad oggi trattata solo nelle aule dei tribunali, a suon di sentenze.

Il licenziamento del dipendente per scarso rendimento, pur non essendo espressamente previsto dalla legge, è comunque stato elaborato dalla giurisprudenza, che tuttavia, in mancanza di indicazioni legislative, lo ha ricondotto al licenziamento disciplinare, come effetto derivante dall’inadempimento del lavoratore che, per colpa dovuta a negligenza o imperizia, produce meno o produce male o in tempi troppo lunghi.

Il licenziamento, per essere legittimo, è necessario che sia anticipato da una contestazione disciplinare scritta dell’azienda, ove vengano specificate, in modo dettagliato, le condotte del lavoratore, evidenziando, appunto:

a) gli errori di esecuzione della prestazione per negligenza;

b) o gli errori per imperizia;

c) o i ritardi nell’esecuzione.

Insomma, il datore di lavoro deve contestare non lo scarso rendimento in sé, ma i singoli comportamenti che lo determinano.

Ovviamente, a prescindere dalla valutazione dell’imprenditore, il giudice avrà un pieno potere, poi, di sindacare il licenziamento e ritenerlo eventualmente invalido in assenza dei presupposti del giustificato motivo soggettivo.

Nello scorso mese di settembre, la Cassazione ha aperto la strada al riconoscimento dello scarso rendimento ma inquadrandolo nel licenziamento giustificato da ragioni economiche-organizzative (cosiddetta “giusta causa”). In tal caso, se il datore di lavoro vorrà licenziare il dipendente “aggrappandosi” a tale motivazione dovrà fondare l’atto di recesso solo sulla misurazione oggettiva del rendimento, prescindendo da colpe e da deficit psico-fisici del lavoratore. Inoltre, sarà necessario dotarsi di strumenti di rilevazione dei risultati della prestazione lavorativa.

Il punto è che lo scarso rendimento è una delle tematiche più importanti se si vuole far crescere la produttività del lavoro. Il dibattito verrà ripreso in questi giorni in cui si dovrà procedere alla scrittura e approvazione del decreto attuativo del Job Act, con l’attuazione dei contratti a tutele crescenti (per approfondimento leggi “Licenziamenti: così funziona il contratto a tutele crescenti”).

Nel pubblico impiego

Discorso diverso bisogna fare per il caso di licenziamento per scarso rendimento all’interno della pubblica amministrazione. Qui esiste già una legge che disciplina tale fattispecie [1] la quale ha, di fatto, fissato le procedure per consentire il licenziamento disciplinare purché ricorrano le seguenti condizioni:

– lo scarso rendimento deve essere riferibile a un arco temporale non inferiore a due anni;

– lo scarso rendimento deve essere rilevato nell’ambito delle procedure di valutazione del personale.

È sufficiente una valutazione sommaria o un errore nella scelta di un criterio per rendere illegittimo il licenziamento (con conseguente diritto alla reintegra del dipendente).

 [1] Dlgs. n. 150/2009.